Primo Levi, Se non ora, quando?
Primo
Levi, Se non ora, quando?
Chiedo
il silenzio
anche se è tardi, è notte,
e tu non puoi.
Canta come se nulla fosse.
Nulla è.
Alejandra
Pizarnik
Via Cava di San Giuseppe, Pitigliano, Toscana. |
Cenni…
Primo Levi nasce a Torino il 31
luglio 1919. Frequenta il Ginnasio Liceo d’Azeglio, tradizionalmente
antifascista, ormai “epurato” e dunque politicamente disinteressato. Nel 1938 a
seguito dell’emanazione delle prime leggi razziali è fatto divieto agli ebrei
di frequentare le scuole pubbliche. Tuttavia a quanti già iscritti
all’Università viene consentito di proseguire gli studi. In quel periodo Levi
partecipa ai circoli di studenti antifascisti. Si laurea alla facoltà di
Scienze dell’Università di Torino nel 1941 con menzione “di razza ebraica”.
Trova dunque un lavoro semilegale presso una cava d’amianto a Lanzo, lavora in
un laboratorio chimico. Nel 1942 si sposta a Milano nella fabbrica Wanden,
produttrice di medicinali. Qui è impiegato nella ricerca e nello studio di
nuovi farmaci contro il diabete. Nello stesso anno, in concomitanza con la
Battaglia di Stalingrado, prima grande sconfitta politico-militare della
Germania nazista contro le forze dell’Armata Rossa, Levi entra nel Partito d’Azione
clandestino. Nel 1943 nonostante la caduta del governo fascista e l’arresto di
Mussolini, la guerra continua. Le truppe tedesche occupano il Nord e il Centro
Italia. Levi partecipa alle azioni di un gruppo partigiano in Valle d’Aosta, e
viene fermato il 13 dicembre presso Brusson insieme a due compagni, e infine
condotto al campo di concentramento di Fòssoli (Carpi). Di qui, nel febbraio
del 1944, Primo Levi sarà deportato ad Auschwitz. Il campo verrà evacuato nel
1945, all’avvicinarsi delle truppe sovietiche. Levi riuscirà a rientrare in
Italia soltanto nell’ottobre dello stesso anno percorrendo un lungo cammino tra
la Russia Bianca, l’Ucraina, la Romania e l’Austria.
Se non ora, quando?
Nel 1982, aprile, esce Se non ora, quando?, Einaudi. Vince il
Premio Viareggio a giugno e il premio Campiello a settembre.
Tutto inizia a Valuets, un
villaggio a tre giorni di cammino da Brjansk. Siamo nel luglio del 1943. Mendel
è un orologiaio, o meglio, il meccanico del kolchoz [abbreviazione di kollektivnoe chozjajstvo, erano
cooperative agricole in cui i contadini lavoravano collettivamente la terra]
riparava un po’ tutto, dai fucili ai trattori. Il paesino si chiamava Strelka,
si “chiamava” perché nel momento in cui si racconta a Leonid, questo paesino
non esiste più. La maggior parte della gente è fuggita nei boschi, e l’altra
metà, ebrea, è dentro una fossa. E poi è il turno di Leonid: «Vengo da Mosca e
da cento altri posti. Vengo da una scuola dove ho imparato a fare il contabile,
e poi l’ho subito dimenticato. Vengo dalla Lubjanka [Mosca, sede dell’NKVD],
perché a sedici anni ho rubato e mi hanno messo dentro per otto mesi: già, un
orologio ho rubato, vedi che siamo quasi confratelli. Vengo da Vladimir, dal
corso dei paracadutisti, perché quando uno è contabile lo mettono nei
paracadutisti. Vengo da Laptevo, vicino a Smolensk [Russia], dove mi hanno
paracadutato in mezzo ai tedeschi. E vengo dal Lager di Smolensk, perché sono
scappato: sono scappato a gennaio, e da allora non ho fatto che camminare».
Mendel, il Menachém (il consolatore), vuole raggiungere i partigiani russi per
unirsi a loro, mentre Leonid appare svuotato, «esercitava un sottile attrito
passivo contro ogni spinta attiva: come la polvere negli orologi» (solo un anno
più tardi, nel giugno-luglio 1944, Mendel rifletterà: «adesso, invece, Leonid
gli ricordava certi altri orologi che gli avevano portati da riparare: forse
avevano preso un urto, le spire della molla si erano accavallate, un po’
ritardavano, un po’ avanzavano follemente, e finivano tutti col guastarsi in
modo irrimediabile»). Li raggiunsero tra luglio e agosto, presso il fiume
Dnepr. Festeggiavano perché la guerra era finita, insieme, e per poi respingerli
perché ebrei. Così Leonid rispose a Venjamìm: «Noi ce ne andiamo, e tu dirai a
quei tuoi uomini che a Varsavia [si riferisce alla rivolta del ghetto di
Varsavia ad opera della popolazione ebraica nel 1943], in aprile, gli ebrei
armati hanno resistito ai tedeschi più a lungo dell’Armata Rossa nel ’41» (p.
47)
Come si legge in Salomoni, gli
ebrei che parteciparono con l’Armata Rossa alla guerra contro la Germania
furono circa mezzo milione, dissolti nelle diverse componenti dell’esercito
sovietico. Le stime parziali, fino ad oggi, indicano che furono tra i 25.000 e
i 30.000 gli ebrei che parteciparono invece al movimento partigiano in tutta
l’Europa dell’Est. Combatterono in formazioni sovietiche e polacche ma anche
come unità indipendenti identificabili soprattutto dalla scelta della lingua
comune al giudaismo ashkenazita, lo yiddish.
La formazione di cellule indipendenti fu anche la risposta al rifiuto da parte
dei raggruppamenti partigiani sovietici [Cfr. A. Salomoni, Genocidio collaborazionismo resistenza. Lo sterminio nazista degli
ebrei sovietici].
L’accampamento di Adam, un
monastero, si trova immerso nelle paludi di Polessia: «La miglior protezione
che il campo abbia sono le paludi. Ce n’è per decine di chilometri, in tutte le
direzioni, e per attraversarle bisogna conoscerle bene […] Ai tedeschi non
piacciono, perché nelle paludi la guerra lampo non si fa» (p.59).
È in questo periodo di dimora a
Novoselki [Russia] che compare la figura mitica di Gedale, comandante
leggendario che aveva guidato la rivolta del ghetto di Kossovo. Gedale suonava
il violino la sera. Lo teneva addosso quando, in occasione del rastrellamento a
Lunintes (che subì l’occupazione tedesca dal 1941 al 1944), un cecchino tedesco
gli sparò. Il violino riuscì ad attutire il colpo della pallottola
permettendogli la fuga. Una volta “rattoppato”, diceva, il violino suonava
anche meglio di prima. È proprio Gedale che canta le parole che si ritrovano
nel titolo del libro di Primo Levi:
[…] I
nostri fratelli sono saliti al cielo
Per i
camini di Sobibór e di Treblinka,
Si sono
scavati una tomba nell’aria.
Solo noi
pochi siamo sopravvissuti
Per
l’onore del nostro popolo sommerso
Per la
vendetta e la testimonianza
Se non
sono io per me, chi sarà per me?
Se non
così, come? E se non ora, quando?
Il violino di Gedale si ruppe
mentre suonava sul treno che avrebbe portato la banda in Italia e che
da poco aveva superato Innsbruck. Era il 1945, la guerra era finita. «Fidl
kapùt!» sghignazzò Pavel.
Non voglio anticipare altro. Invito
soltanto, vista la menzione, ad un approfondimento sul campo di sterminio di
Sobibór, costruito nel 1942 nell’omonimo villaggio e in cui furono uccise più
di 200.000 persone, e a al campo di Treblinka, istituito nello stesso anno,
sempre nella Polonia orientale, nell’ambito dell’operazione Reinhardt, in cui
morirono tra i 700.0000 e i 900.000 civili.
A Turov [Bielorussia], un altro scambio che dovrebbe
far riflettere: «I tedeschi pensano che un ebreo valga meno di un russo e un
russo meno di un inglese, e che un tedesco valga più di tutti. Pensano anche
che quando un uomo vale più di un altro uomo, ha il diritto di farne quello che
vuole, anche di farlo schiavo o di ucciderlo». Questo dialogo fra Mendel e
Priot richiama l’ampio discorso sulla propaganda nazista, in particolare sull’identificazione
dell’ebreo con il comunista. Il comunismo era la realizzazione dello spirito
del giudaismo. Si legge ancora una volta
in Salomoni: «Il sistema [di propaganda] comporta la connessione tra
l’emancipazione ebraica e le rivoluzioni sociali del ventesimo secolo;
l’equivalenza tra ebraismo e comunismo; il complotto “giudeo-bolscevico”
internazionale: l’egemonia del “commissario politico” ebreo nelle istituzioni
sovietiche». Più avanti nel libro ritorna il tema della propaganda, siamo a
Zorbz questa volta, un villaggio in Polonia: il sindaco spiega a Gedale che
l’arrivo dei tedeschi nel 1939 era stato per loro, in un primo momento, un
grande sollievo, convinti com’erano che avrebbero portato via i soldi agli
ebrei per restituirli alle persone del villaggio. Così Gedale domanda: «Erano
dunque tanto ricchi, gli ebrei di Zborz?», e il sindaco: «Tutti dicevano di sì.
Erano vestiti male, ma la gente diceva che questo veniva dal fatto che erano
avari. E diceva anche altro, la gente: che gli ebrei erano bolscevichi, che
volevano collettivizzare le terre come in Russia, e ammazzare tutti i preti».
Credo di aver detto più di quanto avrei voluto,
ma spero sia sufficiente ad invogliarvi tutti a leggere questo libro, per la
sua trama così coinvolgente, questo viaggio dalla Russia all’Italia di una
banda, di un gruppo di persone in fuga, con storie diverse e la voglia di
Resistere. Un libro ricco di spunti, di pagine da approfondire, da studiare.
Nelle ultime pagine Primo Levi cita alcuni dei volumi di riferimento per la
ricostruzione degli scenari e dei linguaggi che si trovano nel testo.
Termino con una frase, urlata da
Dov a Mendel: «Stiamo combattendo per
tre righe nei libri di storia».
Il
numero di ebrei uccisi in Unione Sovietica, stando alle stime più recenti,
oscilla tra 2.500.000 e i 3.300.000.
Consiglio il saggio di Salomoni A., Genocidio collaborazionismo resistenza. Lo sterminio nazista degli ebrei
sovietici, in Italia contemporanea:
rassegna dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in
Italia, e la graphic novel Primo Levi
scritta da Matteo Mastragostino e disegnata da Alessandro Ranghiasci edita da
Becco Giallo.
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